Hardkeologia 3

(Una volta, sulla rivista I Martedì, mi diedero persino il permesso si incensare Frank Zappa)

Quel moccioso deve smetterla di picchiare con le bacchette sui mobili di casa. Quel ragazzino non dovrebbe andare a suonare nelle balere con i negri e i portoricani. Ehi, quel tizio è un genio e la sua band è la più fuori di testa di tutta Los Angeles. Le canzoni di costui sono un pessimo esempio per i nostri figli. Questo compositore va annoverato tra i più importanti del ‘900.

Fermiamoci qui. Apparirà curioso, ma tutte le frasi precedenti avrebbero potuto essere state pronunciate, in tempi diversi, con riferimento alla stessa persona: Frank Vincent Zappa, nato a Baltimora nel 1940 da famiglia italogreca e scomparso nel 1993, non prima di avere, come lui avrebbe detto, scolpito metri cubi e metri cubi d’aria nonchè lasciato istruzioni per molestarne altrettanta. È increscioso che di lui, oggi, i più conoscano solo i baffi e poco altro. È interessante invece che la sua musica figuri sempre più spesso nei programmi di sala dei teatri, inserita magari tra un brano di Schönberg e uno di Bartòk, piuttosto che nelle scalette dei concerti rock. Strano pure questo? Solo in apparenza. Vediamo perché.

La chiave di tutto sta probabilmente in una copia di Ionisation, opera per sole percussioni del compositore d’avanguardia Edgar Varèse, che nei primi anni ’50 giace invenduta in un negozio di dischi in un villaggio della California. L’adolescente Zappa, che dall’infanzia si era trasferito da quelle parti con la famiglia e già sfogava sulle suppellettili casalinghe la propria vocazione di percussionista non potendo permettersi una batteria, entra in possesso di quel 78 giri e ciò che gli invade le orecchie cambia i suoi orizzonti. Per tutti gli altri è rumore infernale? Affari loro. Per lui è grande musica, e questo conta. Il Nostro comincia a studiare musica da autodidatta, coltivando l’interesse per i contemporanei, in particolare Stravinskij e Webern, e ha subito in uggia i manuali d’armonia, così come ogni altro tipo di regola. Nel frattempo si compra (finalmente!) una batteria, ma dopo poco tempo passa alla chitarra. Durante gli anni del liceo suona in un complesso comprendente anche neri e ispanici, cosa non apprezzata da tutti nell’America degli anni ’50, ancora lontana dall’integrazione razziale. I chitarristi blues e i cantanti neri del doo-woop, sue fonti ispiratrici nell’attività “leggera”, per le sue orecchie extra-accademiche non hanno nulla di inferiore ai compositori colti.

Dopo gli studi, inizia una dura gavetta: continua a scrivere musica (a 19 anni compone la colonna sonora per un film western), gestisce per qualche tempo uno studio di registrazione (facendo pure qualche notte di galera per aver prodotto un nastro dai contenuti osè) e suona con vari gruppi nei bar e nelle sale da ballo, lavorando nel contempo come commesso per sbarcare il lunario.

La svolta avviene nel 1964: convince il suo gruppo, i Soul Giants, onesti musicisti da pub, a sostituire il repertorio di successi del momento con brani originali scritti da lui. Perdono immediatamente tutti gli ingaggi nelle sale da ballo. Inseriscono una forte componente teatrale nei loro spettacoli, si ribattezzano Mothers e, grazie anche a un manager esperto, ottengono un contratto discografico: nel 1966 esce, a nome Mothers of Invention (adeguamento richiesto dalla casa discografica), Freak Out. Doppio 33 giri (si discute se sia il primo o il secondo della storia) dal contenuto quantomeno spiazzante: i brani “normali” sono parodie, sul piano dei testi (demenziali e graffianti) e della musica (sberleffi sonori a base di vocine distorte e kazoo), delle canzonette commerciali in voga all’epoca; il resto è pura sperimentazione, e passa da brani atonali e rumoristici alla registrazione fedele del rumore prodotto da un gruppo di freak chiusi in uno studio insieme a bonghi e sostanze psicoattive. Il tutto, scritto e diretto da Frank Zappa (perfettamente lucido, in quanto assume solo nicotina).

Il disco entusiasma il pubblico “alternativo”, scandalizza i benpensanti e vende poco. Ma per il successivo Absolutely Free, Zappa alza il tiro: introduce nel gruppo musicisti di estrazione jazz, si permette citazioni esplicite di Stravinskij e, soprattutto, incide Brown shoes don’t make it: una vera e propria opera rock della durata di sette minuti e mezzo, nella quale ogni 5 secondi cambiano ritmo, arrangiamento e genere musicale, e che, per la gioia delle commissioni di censura di mezzo mondo, parla di influenti uomini politici che abusano di ragazzine minorenni.

Ottenuto un ingaggio per un’intera stagione al Garrick Theatre di New York, nel 1967, le Mothers of Invention spopolano con uno spettacolo-happening che unisce la loro musica al teatro dada e al coinvolgimento fisico del pubblico. Intanto escono We’re only in it for the money, collage avanguardistico che in un colpo solo dileggia il movimento hippy e spara a zero sul repressivo establishment americano (tanto che alcune canzoni subiranno dei tagli da parte della casa discografica e all’insaputa di Zappa), e Uncle Meat, nuovo doppio disco che accosta complesse partiture strumentali (nell’organico ci sono vibrafoni e clavicembali), improvvisazioni free jazz e qualche canzonetta velenosa, per non perdere l’abitudine.

Il successo commerciale però non arriva e, dopo un altro paio di album assemblati con (ottimo) materiale registrato dal vivo, Zappa scioglie le Mothers. Nel frattempo ha già inciso un disco con una piccola (low budget) orchestra sinfonica, Lumpy gravy, e ha fondato una propria etichetta per mettersi al riparo dalle pratiche vessatorie delle grosse case discografiche. Nel 1970 chiama un gruppetto di virtuosi e incide Hot Rats, raccolta di brani strumentali in mirabolante equilibrio tra jazz e rock nei quali un sax sguaiato e un violino petulante ingaggiano duelli all’ultimo assolo con la sua chitarra. Quando il rigore dello spartito lo permette, s’intende.

Nel 1971 va in tour con una nuova band, ma la sfortuna è in agguato: mentre sta suonando al Casinò di Montreux, scoppia un incendio che distrugge tutta la strumentazione (evento immortalato in “Smoke on the water” dei Deep Purple), poi a Londra uno squilibrato sale sul palco e lo butta di sotto, causandogli lesioni e fratture assortite che lo costringono per quasi un anno su una sedia a rotelle. Ciò non gli impedisce di far uscire svariati dischi, tra cui la colonna sonora di un bislacco film da lui stesso diretto (200 Motels, che uscirà nelle sale molti anni dopo) e due sortite jazz-rock con una formazione infarcita di fiati, Waka-Jawaka e The Grand Wazoo.

Nel frattempo, i suoi cassetti si sono riempiti di pagine e pagine di pentagrammi che aspettano soltanto un orchestra che li esegua. In Europa alcune prestigiose filarmoniche sarebbero interessate, ma occorrono grossi budget. Per procurarli, Zappa fa di necessità virtù: i nuovi dischi strizzano per la prima volta l’occhio al grande pubblico. Compaiono brani più orecchiabili, mentre nei testi si accentua il lato pecoreccio; cionondimeno, si naviga sempre parecchio alla larga dal banale, per quanto i fans della prima ora storcano il naso. Forse, anzi, dischi di questo periodo come Apostrophe, One size fits all o Sheik Yerbouti sono i più indicati per il neofita proveniente dal pop che non voglia rimanere traumatizzato al primo ascolto. E comunque, ricordate: se in un disco di Frank Zappa sentite un brano disco, country o heavy metal, quasi sicuramente si tratta della (feroce) parodia di un brano disco, country o heavy metal.

L’incisione e la pubblicazione delle composizioni sinfoniche è comunque sudata. La Warner Bros rifiuta di pubblicare Lather, composito album quintuplo (!) contenente brani rock e orchestrali, e lo diluisce in album singoli usciti senza la supervisione di Zappa. Intoppi burocratici e organizzativi fanno fallire vari progetti con orchestre statunitensi ed europee prima ancora che una sola nota sia stata suonata, e si deve attendere il 1983 perché la London Symphony Orchestra diretta da Kent Nagano registri alcune delle creazioni del baffuto chitarrista. Se la cosa passa quasi inosservata nel mondo pop, dove forse appare come un’ennesima stramberia, maggiore interesse ottiene negli ambienti colti, tanto che l’anno dopo è nientemeno che Pierre Boulez, grande vecchio dell’avanguardia europea nonché idolo giovanile di Zappa, a dirigere il suo Ensemble Intercontemporain per The Perfect Stranger. Che si potrebbe desiderare di più?

Secondo Zappa, non del tutto soddisfatto del risultato finale, diverse cose. Ad esempio, che le orchestre potessero provare e riprovare prima della registrazione fino a raggiungere un’ottimale livello di esecuzione, quando invece norme sindacali e altri fattori logistici e organizzativi permettono poche e insufficienti ore di prove, durante le quali è oltretutto proibito registrare. E che quei sussiegosi signori in farfallino abituati a suonare brani di autori defunti si applicassero con più passione alla sua musica, invece di comportarsi da impiegati che timbrano il cartellino.

La soluzione arriva dalla tecnologia e si chiama Synclavier: un computer musicale, progenitore degli attuali sequencer, in grado di suonare all’istante qualunque spartito gli venga sottoposto, anche quelli insuonabili da un esecutore umano. Zappa può così finalmente ascoltare immediatamente la musica che ha in testa, senza dover passare mesi a trascriverla e anni a trovare un’orchestra disposta a eseguirla. Il giocattolo gli piace tanto da pubblicare Jazz from hell, album quasi interamente eseguito dall’infernale (appunto) macchinario.

E’ il 1986: nel frattempo Frank Zappa ha continuato a suonare rock, allestendo tournee con formazioni ricche di grandi talenti (qualche nome: Steve Vai, Adrian Belew, George Duke, Chester Thompson…) e pubblicando vagoni di dischi, tra i quali parecchi live, alcune raccolte dei suoi chilometrici assoli di chitarra e addirittura un album di opere di un compositore italiano del ‘700, tale (non è uno scherzo) Francesco Zappa, eseguite dal fido synclavier. Ma per il disimpegnato ascoltatore pop medio degli anni ’80, Zappa è soprattutto un bizzarro entertainer. Poco importa che album come Joe’s Garage, You are what you is o Them or us siano vere e proprie opere di satira a 360° sull’America reaganiana (con un occhio di corrosivo riguardo per i predicatori televisivi, che allora imperversano sugli schermi), i più colgono solo il lato greve e demenziale delle canzoni. Proprio per questo, anzi, finisce nel mirino, insieme a Prince e altre star, di una lobby formata da mogli di parlamentari USA (tra cui Tipper, la moglie di Al Gore) che intendono far imporre per legge la segnalazione sulla copertina dei dischi della presenza di testi “espliciti”. Zappa depone al Congresso nel corso di un’audizione durante la discussione della legge, registra la seduta, la monta alla sua maniera e la pubblica in un disco intitolato sagacemente Frank Zappa meets the mothers of prevention. In ogni modo, nel 1988, dopo un tour di grande livello artistico e spettacolare (documentato in cinque dischi dal vivo usciti in seguito) interrotto anzitempo per dissapori tra i musicisti e scarsa risposta di pubblico, decide di non fare più concerti.

Arrivano gli anni ’90 e l’Ensemble Modern, un’orchestra tedesca specializzata nel repertorio contemporaneo, si offre di preparare un concerto di musiche di Zappa (composizioni per synclavier comprese) sotto la supervisione del medesimo e senza alcun limite nei tempi delle prove. Ma quello che salirà sul palco dell’Opera di Francoforte sarà un uomo visibilmente invecchiato e gravemente malato: gli è stato diagnosticato un tumore alla prostata, che il 4 dicembre del 1993, a soli 53 anni, se lo porterà via. La moglie Gail, per tanti anni suo braccio destro discografico, e i quattro figli rimangono depositari di un corpus musicale sterminato, in parte mai pubblicato se non addirittura mai eseguito. Verrà centellinato nel corso degli anni successivi, e molto ancora deve vedere la luce.

Come si diceva all’inizio, a tredici anni dalla sua scomparsa Zappa è molto più frequentato dagli accademici che dai musicisti rock. Per questi ultimi la sua musica è per certi versi “estrema”: ci vuole grande tecnica per suonarla e un certo approccio anticonvenzionale, unito a parecchio sense of humor, per apprezzarla, tanto è distante dalla retorica codificata del sex, drugs & rock’n’roll. I suoi lavori sinfonici, invece, hanno acquisito piena dignità presso gli addetti ai lavori; forse anche perché, pur collocandosi nel solco dell’avanguardia del Novecento, aggiungono talvolta a quest’ultima un minimo di gradevole attenzione verso le orecchie del pubblico, anche grazie alla consueta tendenza a non prendersi troppo sul serio. Forse il più grande contributo dato alla musica da Frank Zappa sta proprio nell’aver cercato di rispondere alla domanda che da il titolo a un suo disco: Does humor belong in music?

Hardkeologia – 2

(questo era un compito della Scuola elementare della scrittura emiliana di Paolo Nori)

Ci vive un serpente a sonagli, nel mio garage. Se non l’ho mai visto, è perché quando vado a prendere la moto si nasconde dentro una pila di vecchi copertoni ed esce solo quando io sono già lontano con le orecchie occupate dal rumore del monocilindrico e non posso più sentir risuonare gli anelli della sua coda. Per ora non me ne preoccupo. Al momento giusto ci incontreremo.

La mia moto è una Ducati Scrambler 450 e ha il serbatoio giallo. Dal libretto di circolazione risulta che il primo proprietario si chiamava Ramponi Gilberto, nato a Castello di Serravalle (BO) il 31 luglio 1948, e la data di immatricolazione è il 17 giugno 1970. Ho voluto cercare su Internet che altro è successo il 17 giugno 1970. Nulla di speciale: hanno giocato quella partita famosa, Italia-Germania 4 a 3. Io odio il calcio. Però tutti parlano sempre di quella partita. Anche mio padre ne parlava sempre. Anche dei mondiali di Spagna, dei gol di Paolo Rossi. Anche quest’anno l’Italia ha vinto i mondiali. Io non li ho seguiti, odio il calcio. Ma ho sentito che parlavano tutti di uno che ha dato una testata a un altro.

Mio padre si chiamava Ermes. Era nato a Poggio Renatico, in provincia di Ferrara. In provincia di Ferrara un tempo era usanza battezzare le persone con nomi curiosi. Usava ancora il 12 febbraio 1950, quando nacque mio padre. I suoi genitori erano mezzadri. Il 4 gennaio 1951 ci fu l’alluvione del Reno e la loro casa venne sommersa. Persero quasi tutto ciò che avevano, che poi erano poche cose dal momento che tutto il resto l’avevano perso durante la guerra. Si salvarono alcuni vestiti, qualche pentola e la pipa di mio nonno.

La mia moto è una Ducati Scrambler 450. “Scrambler” è una parola inglese che si usava una volta per indicare le moto che andavano bene sia per strada che fuori strada. Adesso si usa il termine “enduro”. Io fuori strada la uso ben poco. A volte faccio lo sterrato di Rasiglio, vado sotto la Via Crucis, tiro fuori la pipa di mio nonno e fumo. Un po’. Finchè non mi viene da vomitare.

La prima volta che ho fumato una sigaretta avevo 13 anni. Ho vomitato. Intorno avevo Matteo Foschi e Ivan Stanghellini, che fumavano, ridevano e mi prendevano in giro. La seconda volta non c’è mai stata. La prima volta che ho fumato la pipa di mio nonno avevo 25 anni. Ho vomitato. Ero solo, nessuno ha visto e nessuno ha riso. Ho vomitato anche la seconda volta, e la terza e la quarta. Vomito sempre quando fumo.

La Via Crucis si chiama Via Crucis perché è una Via Crucis, con tutte le sue stazioni. Ma le processioni non ce le fanno più da anni e anni. E’ una mulattiera ripidissima che sale fino in cima a una collina, e dal terreno affiorano rocce bianche e appuntite. Ora l’hanno sbarrata all’imbocco, ma per tanti anni ci sono passate le gare di regolarità. Solo i migliori arrivavano in cima senza scendere a spingere.

Mio nonno si chiamava Rubens ed era del 1921. A vent’anni era in Albania. La pipa la comprò là. Era il suo portafortuna, diceva. Solo questo so dell’Albania. Non ha mai raccontato altro..

All’inizio mio padre non c’era. In casa c’era la mamma, c’era il nonno e c’era la nonna. Il babbo è via a lavorare, dicevano. E’ arrivato che avevo cinque anni, più o meno. Aveva un bel sorriso, si è chinato e mi ha accarezzato su una guancia. Gli ho detto: sai che so andare in bicicletta? E lui: bravo, quando sei un po’ più grande ti insegno anche a guidare il motorino.

Hardkeologia – 1

(Sto facendo pulizia sull’hard disk. Trovo cose come questa incompiuta, di cui non mi ricordavo minimamente)

La prima cosa a cui ho pensato è stata la bandiera del Bologna. Lo scorrere verticale dei rivoli di sangue tra le pieghe dell’uniforme blu, non ho potuto fare a meno di associarlo ai colori sociali della squadra di calcio per cui faccio il tifo.

La seconda cosa che ho pensato è stata che facevo meglio a vergognarmi di pensare al Bologna davanti a un tale macello. Entrambi i poliziotti avevano sfondato il parabrezza con la testa e avevano le gambe incastrate tra le lamiere spinte indietro dall’albero solido e secolare che avevano scelto per demolire la gazzella. Nessuno dei due dava segno di vita.

Prima ancora di riuscire a formulare all’interno del mio cervello un ipotesi assennata relativa al da farsi, sono stato distratto da un particolare : un involucro scuro, situato per terra a fianco dell’auto e dall’interno di essa probabilmente scivolato nel momento in cui l’urto ha semiaperto la portiera. Una fondina con annessa pistola.

In quel momento, per ragioni riconducibili a sfere della psiche non pienamente conosciute nemmeno da chi ha dedicato una vita allo studio delle medesime, mi è parsa come del tutto ovvia e naturale un’azione comprensiva di svariate infrazioni al codice penale sanzionabili con la reclusione: raccogliere l’arma e andarmene, prima che sopraggiungesse qualcun altro su quel peraltro poco frequentato tratto di strada collinare e boschiva. Un solo, breve indugio : potevo fare qualcosa per i due derelitti ? Un rapido esame delle loro condizioni rivelava inutile qualsiasi intervento da parte di personale estraneo al ramo pompe funebri, settore nel quale il sottoscritto non ha mai operato. Indi, con una strana e sottile eccitazione in corpo, ho raccolto l’arma e sono ripartito, delegando al prossimo passante l’onore di annunciare al mondo l’accidentale dipartita di due tutori dell’ordine in servizio.

-*-

Mia nonna è ritta con le mani sui fianchi davanti alla porta di casa sua quando la mia auto fa il suo ingresso nell’aia. Stavo in pensiero, mi dice mentre scendo, per me dovevi già essere qui un’ora fa. Hai ragione nonna, le dico, ma ho incontrato un amico e mi sono perso in chiacchiere. Mento pietosamente, nonna, non vorrai mica che ti riveli che ho sottratto un revolver a due poliziotti moribondi se non defunti e che mi sono fermato nel bosco qualche kilometro più avanti ad esaminare l’oggetto scoprendo che è dello stesso modello che mi davano sotto naia quando montavo come caporale di servizio allo spaccio ? E non vorrai mica che ti dica pure che la pistola ha il caricatore vuoto fatta eccezione per un proiettile ? Non posso, nonna, ti hanno già operata al cuore una volta e ti farebbe male sapere tutto questo. E scusami se adesso, mentre davanti ad un tè fumante stai aggiornandomi sullo stato di salute di tutti i parenti vicini e lontani, fingo soltanto di ascoltare poiché la mia mente è occupata da quel fagotto che ora riposa sotto il sedile della mia auto, lato guidatore. E scusami se ti interrompo di colpo dicendoti che devo dare un’occhiata alla moto. Questa non è del tutto una bugia. Tengo un vecchissimo due e mezzo da cross nella rimessa, di fianco al trattore del nonno. Qui mi reco, insieme alla mia recente conquista calibro 7,62. Smonto la sella della moto. Apro la scatola del filtro dell’aria. Rimuovo il filtro medesimo. Lo avvolgo in un sacchetto di nylon e lo appendo ad un chiodo. Metto uno straccio nella bocca d’aspirazione del carburatore, onde proteggere il motore da polvere e sporcizia. Introduco la pistola nella scatola del filtro. Richiudo e rimonto la sella.

Mi congratulo con me stesso per la scelta del nascondiglio.

Rientro in casa della nonna che ha già preparato la provvista di vettovaglie per le quali sono venuto fin qui. Mi dà un coniglio morto e scuoiato, e saluta tanto la mamma, due galline da brodo, e dì a tuo padre che ogni tanto può venire a trovarmi, e uova in numero multiplo di sei.

Ciao nonna e grazie, tu non lo sai ma questa rimarrà per me una visita indimenticabile. Nei secoli dei secoli amen.

-*-

Ho fatto una strada diversa per tornare a casa. Non volevo rivedere l’auto accartocciata sgocciolante sangue, né rimanere invischiato nell’ingorgo causato dagli ormai sopraggiunti soccorsi e dagli inevitabili curiosi. Mi avrebbe tra l’altro distolto dal mio valutare mentalmente le probabilità per le quali si sarebbe potuto risalire al sottoscritto in quanto improvvisato sciacallo ai danni delle forze dell’ordine. Nessuno mi aveva visto. Nessun’auto è passata, prima e dopo l’incidente.

Solo la mia e la gazzella, che tre curve prima di quella fatidica mi aveva superato a velocità sostenuta e con manovra un tantino azzardata, quantunque con sirena spenta. Dove cacchio dovrete mai andare, avevo pensato, inviando per riflesso condizionato anche alcuni accidenti, ma non così pesanti, lo giuro. Non amo i poliziotti, va bene, ma non fino a questo punto. Due cose mi chiedo soltanto : quali ragioni di servizio li spingeva ad andare tanto forte da schiantarsi ? E dove hanno scaricato i colpi che mancano dal caricatore da me recuperato ?

Forse si annoiavano durante il pattugliamento, e hanno pensato di ingannare il tempo con un po’ di tiro a segno nel bosco e con una simulazione rallystica su strada aperta al traffico. In ogni modo, nessuno lo saprà mai. Qualcuno saprà mai, invece, che il revolver che mancherà all’appello l’ho raccolto io ?

No. La certezza è matematica. Non ci sono testimoni, nemmeno del fatto che io ho percorso quel tratto di strada a quell’ora. Nessuno può risalire a me in alcun modo. Eppure, il ritmo delle mie pulsazioni cardiache rimane sostenuto.

Carpe diem ? No, baccalà.

Non so se è l’avvenuto raggiungimento di una ragguardevole età, o una variante patologica e cronica del cosiddetto senno di poi, ma sempre più spesso mi capita di guardarmi indietro e vedere con chiarezza decine di occasioni mancate, treni persi, rigori a porta vuota sbagliati o nemmeno calciati. Perchè? A volte per stolta disattenzione, ovvero non contezza di avere davanti una scelta dalle possibili gradite conseguenze. A volte per eccessiva prudenza, quando non codardia rispetto al possibile cambiamento. Insomma, è come se mi accorgessi solo adesso di essere sempre stato ad un passo da più possibili (e sperati) obiettivi, ma di non avere mai fatto quel passo.

Adesso però la vorrei smettere, con questo lavorio autocritico che altro non fa che deprivare la mia già risicata autostima. E dedicarmi a un’altra missione. Voglio scoprire cosa c’è che mi sto perdendo adesso, in questo momento, perchè ci sarà sicuramente qualcosa come è capitato che ci fosse in passato, e questa volta non lo voglio individuare solo quando non sarà possibile che rimpiangerlo. Detto così sembra pure facile. Chissà.

Dalla Marmolada al Po

Da ragazzino (e si va indietro di quarant’anni buoni) andavamo in campeggio in val Ferret. Quasi a filo sopra il campeggio, c’era un ghiacciaio pensile che scendeva dalle Grandes Jorasses e dal quale, nelle giornate calde, si staccavano enormi blocchi di ghiaccio che scendevano sulla pietraia morenica fino a poca distanza dalle nostre tende, e noi andavamo a prenderli per metterli nei frigoriferi da campeggio. Ci sembrava una cosa molto divertente.

Un paio d’anni fa sono tornato e ho visto che è rimasto ben poco di quel ghiacciaio e di molti altri nella zona. Poco distante c’è il ghiacciaio di Planpincieux, il cui equilibrio ormai precario ha più volte negli ultimi anni portato all’evacuazione della valle.

Negli ultimi anni mia moglie mi ha convertito (parzialmente) alla val di Fassa. Più volte, dal passo Fedaia o dalla Via del Pan, mi è capitato di guardare il ghiacciaio della Marmolada e di pensare che sarebbe stato bello fare un giro lassù. Poi però non ci sono mai andato.

Oggi tutti abbiamo visto l’immensa massa di ghiaccio e detriti scivolare verso la valle travolgendo ogni cosa e, purtroppo, anche degli esseri umani. Sì, la montagna presenta dei rischi. Chi ci va lo sa. Ma qui non si è trattato di imperizia o imprudenza. Si potrebbe catalogare come fatalità. Fino a un certo punto.

Abbiamo sentito Mario Draghi ammettere a denti stretti che la causa è il cambiamento climatico. Ha detto che il governo deve riflettere e prendere provvedimenti. Mi chiedo a quali provvedimenti pensasse. E mi chiedo anche: nel caso non ci fossero state vittime, che risalto avrebbe avuto la notizia? Devono esserci dei morti affinchè si parli della distruzione dell’ambiente, che è ormai in gran parte irreversibile? L’acqua che non scende più dai ghiacciai è quella che manca dal Po in secca. Come intende il professor Draghi agire per combattere nel breve termine un processo che va avanti da decenni? E’ una domanda disinteressata. Non credo che avrà mai risposta.

Quelli del Muro

In questo blog, che ha uno zoccolo duro di circa due lettori più quattro o cinque occasionali ad ogni post, racconto perlopiù aneddoti risalenti a quando ancora non avevo i capelli bianchi e riuscivo a fare impegnative escursioni in montagna senza l’ausilio dell’ossigeno. Lo faccio come esercizio di memoria, che non la si esercita mai abbastanza, e un po’ anche per evidenziare come situazioni, a suo tempo vissute come normale quotidianità, appaiano oggi come avventure ai limiti dell’incredibile. Mi piacerebbe prima o poi raccontare di una vacanza itinerante in tenda, tra le Dolomiti e la Carnia, con una Citroen Dyane 6 su cui viaggiavano sei persone tra cui una bambina di un anno. Ma io ho pochi ricordi e molti dei testimoni non ci sono più.

Ma di quella che per me è stata l’esperienza più importante e di certo più entusiasmante di tutte non ho finora quasi mai parlato. E’ una storia che inizia poco prima di una Fine, che nessuno poteva immaginare. Ci fu il referendum contro il nucleare e io andai a servire come scrutatore in quota PCI (oggi si fa per sorteggio). Conobbi così alcuni miei coetanei che frequentavano la sezione del partito del nostro quartiere (500 iscritti su 5.000 abitanti) che da qualche tempo pubblicavano un giornale ciclostilato, e mi chiesero di unirmi a loro. Loro non lo sapevano, ma quello era sempre stato il mio sogno.

La testata del giornale era “Il Muro”. Non ricordo come lo avessero scelto. Non si riferiva comunque al muro di Berlino, all’epoca ancora intatto seppure per poco. Ognuno lo interpretava suo modo. A me piaceva pensare il muro come uno spazio a cui affiggere idee e pensieri. La redazione comprendeva cinque-sei under 30 e pochi over. Gli argomenti erano svariati: cronaca locale, attualità politica, recensioni di film e spettacoli. Ricordo due articoli sulla Parigi-Dakar, uno a favore (indovinate di chi) e uno contro. Per la parte grafica saccheggiavamo Altan e Vauro. La distribuzione avveniva all’interno della diffusione domenicale dell’Unità.

Cominciammo a frequentarci anche fuori dagli incontri della redazione: diventammo così una Redazione Permanente, in cui il privato diventava giornalistico. La sezione era il nostro campo base, da cui partivamo per andare a vedere uno spettacolo di Dario Fo oppure un film di Ken Loach, sui quali poi avremmo scritto, e discutevamo del prossimo numero dentro alle osterie del Pratello.

La sezione del partito ci supportava non poco: decise di comprare un computer IBM compatibile (come si diceva allora) sul quale poi scrivevamo i pezzi e facevamo l’impaginazione con una copia pirata del software Ventura Publisher che usavamo senza mouse (costava centomila lire, decidemmo di risparmiarli). Fummo eletti nel Comitato di sezione, e alcuni di noi (tra cui il sottoscritto) cominciarono anche a fare attività politica in senso classico.

Ci sentivamo belli, giovani e forti. E giuro che lo eravamo. E ci innamoravamo. Una sera chiesi a una ragazza della redazione e a un ragazzo che ci frequentava da poco di venire a darmi una mano al bar della festa dell’Unità. E loro vennero, ma stettero tutta la sera seduti a un tavolino mentre io sgobbavo. Poi si sono sposati. Ho sempre pensato che questo sia stato l’unico risultato concreto della mia carriera di attivista.

Finchè un giorno il muro di Berlino cadde davvero. La Storia accelerò, e per noi arrivò il momento di affrontare la cosiddetta svolta della Bolognina. Occhetto, il segretario del PCI, propose di cambiare nome al partito (e questo poteva anche andar bene) e di trasformarlo in una scatola vuota genericamente progressista. Noi pensavamo che le sezioni sul territorio fossero fondamentali, e lui non le citava nemmeno. La redazione, quasi in blocco, si trovò contraria.

Le cose intorno a noi cambiarono. Gente ci tolse il saluto. Dirigenti territoriali ci suggerivano di non esporci troppo nel dibattito in corso. E invece il Muro pubblicò articoli sgraditi alla maggioranza. No, non ci chiesero di chiudere. Ma ormai l’incantesimo si era rotto. Così Il Muro, organo ufficiale della sezione “Ho Chi Minh/Menarini” del Partito Comunista Italiano, non diventò l’organo ufficiale del circolo “Menarini” del Partito Democratico della Sinistra della Croce di Casalecchio.

Per qualche tempo curai un giornale a livello comunale per Rifondazione Comunista, ma durò poco, e non presi mai la tessera. Non presi mai più una tessera, a parte quelle del sindacato e dell’ANPI. Per un po’ cercai di rimanere attivo, ma mi accorsi che pretendevo di cambiare il mondo quando nemmeno riuscivo a risolvere i miei problemi. Mi ritirai ripromettendomi di tornare. Non potevo immaginare lo sfacelo che sarebbe poi diventata la politica italiana.

Questo è un breve riassunto della storia del Muro, storia nella quale mi gettai a capofitto con l’entusiasmo di chi credeva di stare davvero per cambiare qualcosa. Dopo ho fatto tante altre cose, e mi sono anche divertito, ma le facevo tanto per far venir sera.

E poi, quali sarebbero le mie idee politiche oggi? Potrei ancora chiamarmi comunista? Dipende. Sono contrario alla dittatura del proletariato e non sono del tutto contrario alla proprietà privata. Forse sono un socialdemocratico. Ma finchè la parola “comunista” darà fastidio a determinati personaggi, ebbene io sarò comunistissimo.

El hombre del partido

Tanti anni fa facevo parte di una squadra di calcio che si chiamava Dinamo Croce: Dinamo come le squadre sovietiche, visto che le origini della compagine venivano da una sezione del PCI, e Croce perchè nata alla Croce di Casalecchio. Disputammo diversi campionati amatori UISP, raggiungendo anche la promozione alla divisione superiore. Ma soprattutto ci divertivamo un mondo, anche quando eravamo alle prime armi e perdevamo partite su partite, perchè lo spogliatoio era ben affiatato e incline alla goliardia (ricordo una partita interrotta dall’ingresso in campo dei cani di due nostri giocatori).

Io giocavo poco, in quanto dotato di miserrime doti tecniche ed atletiche. Per cui facevo molta panchina o assumevo incarichi come guardalinee di parte o dirigente accompagnatore. Però una domenica mattina, a Castelletto di Serravalle, eravamo contati. A fare la guardalinee ci pensò la mia morosa che aveva un braccio ingessato, e dirigente l’allenatore, appena operato a un ginocchio, pure lui col gesso. Io mi accomodai in panchina.

La squadra di Castelletto era tra le prime in classifica, noi tra le ultime. I giocatori arrivarono con le tute con i colori del Milan (erano i tempi di Sacchi). Nel primo tempo ci dominarono e passarono in vantaggio. Nell’intervallo il nostro allenatore ebbe un’idea apparentemente folle: togliere Vittorio, che aveva due piedi formidabili, e sostituirlo con me, che non riuscivo a fare due palleggi di seguito. Mi disse di stare davanti alla difesa e di attaccare sempre l’uomo che veniva avanti con il pallone. E io lo feci. Ma quel giorno, non so come nè perchè, vinsi quasi tutti i contrasti, tutti i rimpalli erano favorevoli a noi, il pallone per motivi indipendenti dalla mia volontà finiva regolarmente ad un compagno smarcato. Pareggiammo. Ci credemmo. Qualche altro pallone stregato, e ribaltammo il risultato. Il fischio finale ci colse sul 2 a 1 per noi.

Ricordo che uscii dal campo per ultimo. Fuori, c’era Vittorio che mi aspettava per farmi i complimenti. Per me fu come se mi avesse dato il pallone d’oro.

Vogliono fare la festa agli alpini

Mio padre non leggeva tanto, non aveva molto tempo libero e quello che aveva preferiva impiegarlo in sella a una bicicletta. Però aveva alcuni libri che se li era letti e riletti: parlavano tutti della ritirata degli alpini dalla Russia nella seconda guerra mondiale. Lui aveva fatto il militare di leva negli alpini della divisione Julia, una di quelle decimate durante la ritirata, e si era appassionato a quella storia. Così si era procurato volumi come “Centomila gavette di ghiaccio” e “Nikolajewka: c’ero anch’io” di Giulio Bedeschi, e “Il sergente nella neve” di Mario Rigoni Stern, e altri ancora, e ogni tanto li riprendeva in mano per rileggerli. Credo che la cosa che lo interessava di più fosse la vicenda umana (e a tratti disumana) di quei poveri soldati mandati ad affrontare il gelido inverno russo con scarponi di cartone. Immagino (non abbiamo mai avuto modo di parlarne) che il fatto che gli alpini facessero parte di un esercito invasore e alleato dei nazisti fosse per lui superato dagli eventi: la responsabilità della guerra era di Mussolini, e i soldati italiani ne erano tra le vittime.

E’ notizia di oggi che il Parlamento italiano ha designato una giornata dedicata al ricordo del sacrificio degli alpini, indicando il 26 gennaio in quanto anniversario della battaglia di Nikolajewka. Copio e incollo dal sito del Senato:

“La Repubblica riconosce il giorno 26 gennaio di ciascun anno quale Giornata na­zionale della memoria e del sacrificio degli Alpini, al fine di conservare la memoria dell’eroismo dimostrato dal Corpo d’armata alpino nella battaglia di Nikolajewka durante la seconda guerra mondiale, nonché di pro­muovere i valori della difesa della sovranità e dell’interesse nazionale nonché dell’etica della partecipazione civile, della solidarietà e del volontariato, che gli alpini incarnano.”

Ora, anch’io credo che gli alpini in qualche modo incarnino “i valori della difesa della sovranità” ecc. ecc., ma a Nikolajewka non si trovavano per questi motivi: erano là come invasori di un altro stato sovrano. Perdipiù il calendario offre l’occasione per un inquietante corto circuito: il 26 gennaio si ricorderebbe la guerra contro i russi, e il 27 il giorno della memoria dell’olocausto, che cade nell’anniversario della liberazione di Auschwitz, liberazione effettuata dai russi. Io credo che per celebrare la storia e i valori degli alpini si sarebbero potuti trovare altri giorni e altre vicende.

Chissà mio padre cosa ne penserebbe. Forse per lui sarebbe stata più indicata una giornata per chiedere scusa agli alpini. E nessun alibi per i fascisti.

Ossa rotte

Stasera ho sentito Mentana dire, riguardo allo scontro tra Draghi e Conte sull’aumento delle spese militari, che “qualcuno ne uscirà con le ossa rotte politicamente”. Mi è venuto in mente che tanti anni fa dissero a me la stessa cosa, testuale. Io ero un giovane militante del PCI e non ero d’accordo con la cosiddetta “svolta” della Bolognina, posizione che sostenni e argomentai in pubblico. Un giorno mi telefonò al lavoro il segretario comunale del partito convocandomi per la sera stessa. Ci andai. Mi disse, andando subito al sodo, che, pur rispettando la mia posizione, mi suggeriva di non espormi troppo, perchè prevedeva che da quella vicenda “qualcuno ne sarebbe uscito con le ossa rotte politicamente”. Istintivamente gli risi in faccia. Io, che non avevo ambizioni di carriera o altro ma tenevo alle mie idee (all’epoca ne avevo qualcuna) e alla loro espressione, mi esposi e mi spesi eccome, insieme a buona parte dei miei amici attivisti. Non so se ci ruppero le ossa politicamente. Qualcuno ci tolse il saluto. La nostra sezione, così ricca di esponenti della minoranza, arrivò a un passo dal commissariamento. Ciononostante, mi proposero di candidarmi come consigliere comunale. Risposi di no perchè non mi interessava votare per ratificare decisioni già prese altrove. Poco più tardi lasciai la politica. Mi ero convinto che non si poteva pensare di risolvere i problemi del mondo se si era a malapena capaci di risolvere i propri. Il segretario comunale invece è ancora nel giro, in uno di quei cespugli a sinistra del PD per i quali anche a me è capitato di votare. Non so se le sue ossa stiano meglio delle mie.

Fiamme sullo Stelvio

Capitò tanti anni fa che andassimo in vacanza a Santa Caterina Valfurva, in Valtellina, quando ancora i monti circostanti erano ricoperti di neve pure in pieno agosto (ma non c’è nessun riscaldamento globale, naturalmente). Una decina di famiglie in campeggio libero: si affittava una fetta di prato da un contadino che ci dava anche l’allacciamento dell’acqua, un po’ come facevano i gruppi parrocchiali.

Il programma della vacanza era abbastanza semplice: un giorno escursione a piedi (per tutti) e un giorno salita in bicicletta per i nostri ciclisti (mio padre e gli amici Gino e Guglielmo), che nei dintorni avevano soltanto l’imbarazzo della scelta tra Stelvio, Gavia, Tonale e altre asperità meno note ma non per questo meno faticose.

Il giorno in cui attaccarono lo Stelvio li seguimmo in automobile: sulla nostra Renault 6 si trovarono mia madre alla guida, Edera, la moglie di Gino al suo fianco e cinque bambini, i rispettivi figli, sul sedile posteriore. Onestamente, non ricordo come facevamo a starci tutti. Quell’anno la nostra auto ebbe più volte problemi, a volte risolti estemporaneamente da mio padre magari ricavando guarnizioni nuove dal cartone di una scatola di formaggini, oppure mettendo il serbatoio di una Vespa sul portapacchi con un tubicino che portava il carburante al motore per forza di gravità. Inoltre mia madre non si sentiva tanto sicura a guidare in montagna. Questo era il quadro.

A un certo punto della salita, non ricordo all’altezza di quale tornante, ci fermammo su uno spiazzo, noi e altre due auto di amici, per scattare delle foto ai ciclisti. Tornati sull’auto, mia madre provò più volte a riaccenderla, ma senza riuscirci. La Renault non voleva saperne di mettersi in moto. Ci dicemmo: gli altri si accorgeranno che non ci siamo e torneranno indietro a vedere. Aspettammo un po’ in auto (fuori faceva freddo) e arrivò Giorgio, buon amico e ottimo meccanico. Aprì il cofano e chiese a mia madre di provare a mettere in moto. Mia madre girò la chiave e dal motore si alzò una fiammata. Scendemmo tutti di corsa.

Giorgio aveva uno straccio, mia madre arrivò con una borraccia d’acqua e la fiamma si spense subito. Secondo Giorgio il problema era la calotta dello spinterogeno che non isolava bene e quindi era uscita una scintilla che aveva trovato un po’ di benzina da accendere. Stante comunque il fatto che l’auto non ripartiva, Giorgio ci caricò tutti sulla sua 127 e ci portò al passo.

Allo Stelvio c’era mio zio Ercolino, già ciclista ma passato in quel periodo allo sci, che allo Stelvio all’epoca si poteva praticare anche d’estate. Fu lui poi a riportarci all’auto guasta. Stavolta prese la guida mio padre, e arrivammo alle porte di Bormio a motore spento e marcia in folle. Trovammo un ricambista che aveva uno spinterogeno e facemmo ripartire l’auto. Tutto è bene quel che finisce bene, e la sera davanti al falò del campeggio avemmo un sacco di cose di cui parlare.

(Un’altra volta partirono per fare Gavia e Tonale insieme, ma mio padre forò due volte e lo recuperò Giorgio in moto. Erano tempi così.)

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