(Una volta, sulla rivista I Martedì, mi diedero persino il permesso si incensare Frank Zappa)
Quel moccioso deve smetterla di picchiare con le bacchette sui mobili di casa. Quel ragazzino non dovrebbe andare a suonare nelle balere con i negri e i portoricani. Ehi, quel tizio è un genio e la sua band è la più fuori di testa di tutta Los Angeles. Le canzoni di costui sono un pessimo esempio per i nostri figli. Questo compositore va annoverato tra i più importanti del ‘900.
Fermiamoci qui. Apparirà curioso, ma tutte le frasi precedenti avrebbero potuto essere state pronunciate, in tempi diversi, con riferimento alla stessa persona: Frank Vincent Zappa, nato a Baltimora nel 1940 da famiglia italogreca e scomparso nel 1993, non prima di avere, come lui avrebbe detto, scolpito metri cubi e metri cubi d’aria nonchè lasciato istruzioni per molestarne altrettanta. È increscioso che di lui, oggi, i più conoscano solo i baffi e poco altro. È interessante invece che la sua musica figuri sempre più spesso nei programmi di sala dei teatri, inserita magari tra un brano di Schönberg e uno di Bartòk, piuttosto che nelle scalette dei concerti rock. Strano pure questo? Solo in apparenza. Vediamo perché.
La chiave di tutto sta probabilmente in una copia di Ionisation, opera per sole percussioni del compositore d’avanguardia Edgar Varèse, che nei primi anni ’50 giace invenduta in un negozio di dischi in un villaggio della California. L’adolescente Zappa, che dall’infanzia si era trasferito da quelle parti con la famiglia e già sfogava sulle suppellettili casalinghe la propria vocazione di percussionista non potendo permettersi una batteria, entra in possesso di quel 78 giri e ciò che gli invade le orecchie cambia i suoi orizzonti. Per tutti gli altri è rumore infernale? Affari loro. Per lui è grande musica, e questo conta. Il Nostro comincia a studiare musica da autodidatta, coltivando l’interesse per i contemporanei, in particolare Stravinskij e Webern, e ha subito in uggia i manuali d’armonia, così come ogni altro tipo di regola. Nel frattempo si compra (finalmente!) una batteria, ma dopo poco tempo passa alla chitarra. Durante gli anni del liceo suona in un complesso comprendente anche neri e ispanici, cosa non apprezzata da tutti nell’America degli anni ’50, ancora lontana dall’integrazione razziale. I chitarristi blues e i cantanti neri del doo-woop, sue fonti ispiratrici nell’attività “leggera”, per le sue orecchie extra-accademiche non hanno nulla di inferiore ai compositori colti.
Dopo gli studi, inizia una dura gavetta: continua a scrivere musica (a 19 anni compone la colonna sonora per un film western), gestisce per qualche tempo uno studio di registrazione (facendo pure qualche notte di galera per aver prodotto un nastro dai contenuti osè) e suona con vari gruppi nei bar e nelle sale da ballo, lavorando nel contempo come commesso per sbarcare il lunario.
La svolta avviene nel 1964: convince il suo gruppo, i Soul Giants, onesti musicisti da pub, a sostituire il repertorio di successi del momento con brani originali scritti da lui. Perdono immediatamente tutti gli ingaggi nelle sale da ballo. Inseriscono una forte componente teatrale nei loro spettacoli, si ribattezzano Mothers e, grazie anche a un manager esperto, ottengono un contratto discografico: nel 1966 esce, a nome Mothers of Invention (adeguamento richiesto dalla casa discografica), Freak Out. Doppio 33 giri (si discute se sia il primo o il secondo della storia) dal contenuto quantomeno spiazzante: i brani “normali” sono parodie, sul piano dei testi (demenziali e graffianti) e della musica (sberleffi sonori a base di vocine distorte e kazoo), delle canzonette commerciali in voga all’epoca; il resto è pura sperimentazione, e passa da brani atonali e rumoristici alla registrazione fedele del rumore prodotto da un gruppo di freak chiusi in uno studio insieme a bonghi e sostanze psicoattive. Il tutto, scritto e diretto da Frank Zappa (perfettamente lucido, in quanto assume solo nicotina).
Il disco entusiasma il pubblico “alternativo”, scandalizza i benpensanti e vende poco. Ma per il successivo Absolutely Free, Zappa alza il tiro: introduce nel gruppo musicisti di estrazione jazz, si permette citazioni esplicite di Stravinskij e, soprattutto, incide Brown shoes don’t make it: una vera e propria opera rock della durata di sette minuti e mezzo, nella quale ogni 5 secondi cambiano ritmo, arrangiamento e genere musicale, e che, per la gioia delle commissioni di censura di mezzo mondo, parla di influenti uomini politici che abusano di ragazzine minorenni.
Ottenuto un ingaggio per un’intera stagione al Garrick Theatre di New York, nel 1967, le Mothers of Invention spopolano con uno spettacolo-happening che unisce la loro musica al teatro dada e al coinvolgimento fisico del pubblico. Intanto escono We’re only in it for the money, collage avanguardistico che in un colpo solo dileggia il movimento hippy e spara a zero sul repressivo establishment americano (tanto che alcune canzoni subiranno dei tagli da parte della casa discografica e all’insaputa di Zappa), e Uncle Meat, nuovo doppio disco che accosta complesse partiture strumentali (nell’organico ci sono vibrafoni e clavicembali), improvvisazioni free jazz e qualche canzonetta velenosa, per non perdere l’abitudine.
Il successo commerciale però non arriva e, dopo un altro paio di album assemblati con (ottimo) materiale registrato dal vivo, Zappa scioglie le Mothers. Nel frattempo ha già inciso un disco con una piccola (low budget) orchestra sinfonica, Lumpy gravy, e ha fondato una propria etichetta per mettersi al riparo dalle pratiche vessatorie delle grosse case discografiche. Nel 1970 chiama un gruppetto di virtuosi e incide Hot Rats, raccolta di brani strumentali in mirabolante equilibrio tra jazz e rock nei quali un sax sguaiato e un violino petulante ingaggiano duelli all’ultimo assolo con la sua chitarra. Quando il rigore dello spartito lo permette, s’intende.
Nel 1971 va in tour con una nuova band, ma la sfortuna è in agguato: mentre sta suonando al Casinò di Montreux, scoppia un incendio che distrugge tutta la strumentazione (evento immortalato in “Smoke on the water” dei Deep Purple), poi a Londra uno squilibrato sale sul palco e lo butta di sotto, causandogli lesioni e fratture assortite che lo costringono per quasi un anno su una sedia a rotelle. Ciò non gli impedisce di far uscire svariati dischi, tra cui la colonna sonora di un bislacco film da lui stesso diretto (200 Motels, che uscirà nelle sale molti anni dopo) e due sortite jazz-rock con una formazione infarcita di fiati, Waka-Jawaka e The Grand Wazoo.
Nel frattempo, i suoi cassetti si sono riempiti di pagine e pagine di pentagrammi che aspettano soltanto un orchestra che li esegua. In Europa alcune prestigiose filarmoniche sarebbero interessate, ma occorrono grossi budget. Per procurarli, Zappa fa di necessità virtù: i nuovi dischi strizzano per la prima volta l’occhio al grande pubblico. Compaiono brani più orecchiabili, mentre nei testi si accentua il lato pecoreccio; cionondimeno, si naviga sempre parecchio alla larga dal banale, per quanto i fans della prima ora storcano il naso. Forse, anzi, dischi di questo periodo come Apostrophe, One size fits all o Sheik Yerbouti sono i più indicati per il neofita proveniente dal pop che non voglia rimanere traumatizzato al primo ascolto. E comunque, ricordate: se in un disco di Frank Zappa sentite un brano disco, country o heavy metal, quasi sicuramente si tratta della (feroce) parodia di un brano disco, country o heavy metal.
L’incisione e la pubblicazione delle composizioni sinfoniche è comunque sudata. La Warner Bros rifiuta di pubblicare Lather, composito album quintuplo (!) contenente brani rock e orchestrali, e lo diluisce in album singoli usciti senza la supervisione di Zappa. Intoppi burocratici e organizzativi fanno fallire vari progetti con orchestre statunitensi ed europee prima ancora che una sola nota sia stata suonata, e si deve attendere il 1983 perché la London Symphony Orchestra diretta da Kent Nagano registri alcune delle creazioni del baffuto chitarrista. Se la cosa passa quasi inosservata nel mondo pop, dove forse appare come un’ennesima stramberia, maggiore interesse ottiene negli ambienti colti, tanto che l’anno dopo è nientemeno che Pierre Boulez, grande vecchio dell’avanguardia europea nonché idolo giovanile di Zappa, a dirigere il suo Ensemble Intercontemporain per The Perfect Stranger. Che si potrebbe desiderare di più?
Secondo Zappa, non del tutto soddisfatto del risultato finale, diverse cose. Ad esempio, che le orchestre potessero provare e riprovare prima della registrazione fino a raggiungere un’ottimale livello di esecuzione, quando invece norme sindacali e altri fattori logistici e organizzativi permettono poche e insufficienti ore di prove, durante le quali è oltretutto proibito registrare. E che quei sussiegosi signori in farfallino abituati a suonare brani di autori defunti si applicassero con più passione alla sua musica, invece di comportarsi da impiegati che timbrano il cartellino.
La soluzione arriva dalla tecnologia e si chiama Synclavier: un computer musicale, progenitore degli attuali sequencer, in grado di suonare all’istante qualunque spartito gli venga sottoposto, anche quelli insuonabili da un esecutore umano. Zappa può così finalmente ascoltare immediatamente la musica che ha in testa, senza dover passare mesi a trascriverla e anni a trovare un’orchestra disposta a eseguirla. Il giocattolo gli piace tanto da pubblicare Jazz from hell, album quasi interamente eseguito dall’infernale (appunto) macchinario.
E’ il 1986: nel frattempo Frank Zappa ha continuato a suonare rock, allestendo tournee con formazioni ricche di grandi talenti (qualche nome: Steve Vai, Adrian Belew, George Duke, Chester Thompson…) e pubblicando vagoni di dischi, tra i quali parecchi live, alcune raccolte dei suoi chilometrici assoli di chitarra e addirittura un album di opere di un compositore italiano del ‘700, tale (non è uno scherzo) Francesco Zappa, eseguite dal fido synclavier. Ma per il disimpegnato ascoltatore pop medio degli anni ’80, Zappa è soprattutto un bizzarro entertainer. Poco importa che album come Joe’s Garage, You are what you is o Them or us siano vere e proprie opere di satira a 360° sull’America reaganiana (con un occhio di corrosivo riguardo per i predicatori televisivi, che allora imperversano sugli schermi), i più colgono solo il lato greve e demenziale delle canzoni. Proprio per questo, anzi, finisce nel mirino, insieme a Prince e altre star, di una lobby formata da mogli di parlamentari USA (tra cui Tipper, la moglie di Al Gore) che intendono far imporre per legge la segnalazione sulla copertina dei dischi della presenza di testi “espliciti”. Zappa depone al Congresso nel corso di un’audizione durante la discussione della legge, registra la seduta, la monta alla sua maniera e la pubblica in un disco intitolato sagacemente Frank Zappa meets the mothers of prevention. In ogni modo, nel 1988, dopo un tour di grande livello artistico e spettacolare (documentato in cinque dischi dal vivo usciti in seguito) interrotto anzitempo per dissapori tra i musicisti e scarsa risposta di pubblico, decide di non fare più concerti.
Arrivano gli anni ’90 e l’Ensemble Modern, un’orchestra tedesca specializzata nel repertorio contemporaneo, si offre di preparare un concerto di musiche di Zappa (composizioni per synclavier comprese) sotto la supervisione del medesimo e senza alcun limite nei tempi delle prove. Ma quello che salirà sul palco dell’Opera di Francoforte sarà un uomo visibilmente invecchiato e gravemente malato: gli è stato diagnosticato un tumore alla prostata, che il 4 dicembre del 1993, a soli 53 anni, se lo porterà via. La moglie Gail, per tanti anni suo braccio destro discografico, e i quattro figli rimangono depositari di un corpus musicale sterminato, in parte mai pubblicato se non addirittura mai eseguito. Verrà centellinato nel corso degli anni successivi, e molto ancora deve vedere la luce.
Come si diceva all’inizio, a tredici anni dalla sua scomparsa Zappa è molto più frequentato dagli accademici che dai musicisti rock. Per questi ultimi la sua musica è per certi versi “estrema”: ci vuole grande tecnica per suonarla e un certo approccio anticonvenzionale, unito a parecchio sense of humor, per apprezzarla, tanto è distante dalla retorica codificata del sex, drugs & rock’n’roll. I suoi lavori sinfonici, invece, hanno acquisito piena dignità presso gli addetti ai lavori; forse anche perché, pur collocandosi nel solco dell’avanguardia del Novecento, aggiungono talvolta a quest’ultima un minimo di gradevole attenzione verso le orecchie del pubblico, anche grazie alla consueta tendenza a non prendersi troppo sul serio. Forse il più grande contributo dato alla musica da Frank Zappa sta proprio nell’aver cercato di rispondere alla domanda che da il titolo a un suo disco: Does humor belong in music?