Fiamme sullo Stelvio

Capitò tanti anni fa che andassimo in vacanza a Santa Caterina Valfurva, in Valtellina, quando ancora i monti circostanti erano ricoperti di neve pure in pieno agosto (ma non c’è nessun riscaldamento globale, naturalmente). Una decina di famiglie in campeggio libero: si affittava una fetta di prato da un contadino che ci dava anche l’allacciamento dell’acqua, un po’ come facevano i gruppi parrocchiali.

Il programma della vacanza era abbastanza semplice: un giorno escursione a piedi (per tutti) e un giorno salita in bicicletta per i nostri ciclisti (mio padre e gli amici Gino e Guglielmo), che nei dintorni avevano soltanto l’imbarazzo della scelta tra Stelvio, Gavia, Tonale e altre asperità meno note ma non per questo meno faticose.

Il giorno in cui attaccarono lo Stelvio li seguimmo in automobile: sulla nostra Renault 6 si trovarono mia madre alla guida, Edera, la moglie di Gino al suo fianco e cinque bambini, i rispettivi figli, sul sedile posteriore. Onestamente, non ricordo come facevamo a starci tutti. Quell’anno la nostra auto ebbe più volte problemi, a volte risolti estemporaneamente da mio padre magari ricavando guarnizioni nuove dal cartone di una scatola di formaggini, oppure mettendo il serbatoio di una Vespa sul portapacchi con un tubicino che portava il carburante al motore per forza di gravità. Inoltre mia madre non si sentiva tanto sicura a guidare in montagna. Questo era il quadro.

A un certo punto della salita, non ricordo all’altezza di quale tornante, ci fermammo su uno spiazzo, noi e altre due auto di amici, per scattare delle foto ai ciclisti. Tornati sull’auto, mia madre provò più volte a riaccenderla, ma senza riuscirci. La Renault non voleva saperne di mettersi in moto. Ci dicemmo: gli altri si accorgeranno che non ci siamo e torneranno indietro a vedere. Aspettammo un po’ in auto (fuori faceva freddo) e arrivò Giorgio, buon amico e ottimo meccanico. Aprì il cofano e chiese a mia madre di provare a mettere in moto. Mia madre girò la chiave e dal motore si alzò una fiammata. Scendemmo tutti di corsa.

Giorgio aveva uno straccio, mia madre arrivò con una borraccia d’acqua e la fiamma si spense subito. Secondo Giorgio il problema era la calotta dello spinterogeno che non isolava bene e quindi era uscita una scintilla che aveva trovato un po’ di benzina da accendere. Stante comunque il fatto che l’auto non ripartiva, Giorgio ci caricò tutti sulla sua 127 e ci portò al passo.

Allo Stelvio c’era mio zio Ercolino, già ciclista ma passato in quel periodo allo sci, che allo Stelvio all’epoca si poteva praticare anche d’estate. Fu lui poi a riportarci all’auto guasta. Stavolta prese la guida mio padre, e arrivammo alle porte di Bormio a motore spento e marcia in folle. Trovammo un ricambista che aveva uno spinterogeno e facemmo ripartire l’auto. Tutto è bene quel che finisce bene, e la sera davanti al falò del campeggio avemmo un sacco di cose di cui parlare.

(Un’altra volta partirono per fare Gavia e Tonale insieme, ma mio padre forò due volte e lo recuperò Giorgio in moto. Erano tempi così.)

Un piccione

E andavo spesso a fumare fuori dalla porticina dietro al capannone, e ogni volta vedevo poco più in là il cadavere di un piccione. Lo guardavo e mi veniva in mente mio figlio, non so perchè, ma avevo paura che mio figlio fosse totalmente indifeso, come quel piccione, e che io, suo padre, non fossi minimamente in grado di proteggerlo.

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